“Non c’è peggior allenatore di se stessi che se stessi” avevo detto ad Alderico qualche giorno fa. “Bisogna sempre capire quando l’allenamento è produttivo o se è il caso di fermarsi” avevo detto a Matteo. Evidentemente predico bene e razzolo male. Le gambe mi fanno male il fiato è rumoroso e ho la maglietta e i pantaloncini completamente fradici. Eppure nonostante tutto voglio portare a casa questo allenamento più che altro per me, per il morale. Per dirmi “Ok ce l’ho fatta”. A quest’ora di sabato di Luglio sulla mura non c’è nessuno a correre. E forse è anche meglio visto il mio stato. Do una occhiata al Garmin. Vado a 6 al Km e ho le pulsazioni a 150 di media. No. Non va bene anche perché l’intenzione sarebbe di poi cercare di correre attorno ai 5. Decido di cambiare il solito percorso e prendo via Arginone con l’idea di andare fino a Porotto e tornare poi per via Modena.
Qualcosa cambia.
Questa strada di campagna con a fianco il canale è tutto sommato tranquilla e attorno sono scomparsi i rumori della città a favore di quelli della campagna. Cicale, cani che abbaiano, macchine che le senti da lontano mentre cambiano e accelerano e aumentano il loro rumore per poi superarti e tornare piano piano qualcosa di indefinito nel rumore di fondo. Sento che dopotutto faccio meno fatica. Il random del player musicale azzecca una sequenza eccellente e non devo portare le mani alle cuffie per saltare il brano continuamente. Che poi potrei anche cancellare qualche brano o forse anche qualche decina ma il fatto di averli, di poterli ascoltare qualora ne avessi voglia mi rassicura, mi fa sentire bene. Arrivo a Porotto che ho finito i 10 Km di riscaldamento che mi ero prefissato di fare. Per la magia del caso nelle cuffie mi passano in sequenza “Unfinished Sympathy” prima nella versione originale dei Massive Attack e poi in quella strumentale degli Hooverphonic. Imbocco la ciclabile di via Modena e aumento come da programma. Lo stato di tempo sospeso di poco fa si trasforma nuovamente in sofferenza. Vedo la mia ombra lunga sull’asfalto del sole basso al tramonto che benché deformata rende l’idea del correre male che attuo. Guardo il Garmin. Mi sono posizionato sui 5 al Km. Le pulsazioni sono salite a 160. Mi accorgo che ho sbandato leggermente nel guardare i dati. Cerco di stare concentrato. Regolo passo e respiro non trovo una combinazione ipoteticamente sopportabile per gli oltre 10 Km che mi dovrebbero portare a casa. Il caso mi propone in cuffia una cover al piano “Under the Milky Way”. Dovrei fare delle playlist con solo canzoni al piano. Mi piace immaginare che un giorno le canterò e le suonerò al piano. Rido fra me e me. La prima volta che ho avuto questo pensiero avevo forse vent’anni e adesso ne ho sessanta e tutt’ora non so ne cantare ne suonare il piano. Abbandono questa strada di pensieri perché sono troppe le cose che ho messo nella “To do list” e che mai ho fatto. Cerchiamo di pensare qualcosa di bello riguardo la corsa. Quali sono i più bei ricordi che ho legati alla corsa in se? Mi sono fatto spesso questa domanda e spesso le risposte sono state diverse. Ma forse alcune sono ricorrenti. Molte volte sono state sotto l’effetto della autoproduzione di endorfina e cambia lo scenario ( neve, pioggia, sole ) ma la situazione era sempre la stessa: correre “forte” senza fare fatica. Anzi non era un correre, ma era un volare ad altezza fissa dal suolo, con le gambe e i piedi che quasi sfioravano il terreno. Altre volte sono state emozioni ricorrenti. Come quella sensazione che provi quando ti metti di fianco alla borsa buttata sul prato e ti metti i chiodi e fai quei due allunghi che ti faranno capire se è serata oppure no. Ecco quella sensazione mi manca. La vedo e la invidio negli occhi delle mie atlete ma non è più cosa mia, è cosa loro. Vorrei essere bravo a potere descrivere in qualche modo quel momento ma non lo sono. Sono ormai arrivato alle porte della città. La corsia ciclabile adesso diventa più frequentata da gente che va verso il centro. Per lo più adolescenti in bicicletta o monopattino. Guardo queste ragazzine dell’età circa di mia figlia più piccola e penso alle loro aspettative per il sabato sera. La maggior parte sono vestite in modo simile secondo le mode del momento. Mi passa una ragazzina che sembra uscita dalla macchina del tempo. Ha un vestitino a quadretti blu e bianchi e delle espadrillas alte che si legano alla caviglia. Ma quello che mi colpisce maggiormente è la scia di profumo che lascia dietro di se. E’ l’odore di un bagnoschiuma che ho probabilmente usato pure io ma che nel momento non ricordo. Il semaforo mi aiuta a raggiungerla. Facendo finta di nulla mi giro a guardarla. Ha le cuffiette e la faccia contenta e sorridente di chi sa che potrebbe essere una gran serata. Scatta l’avanti è prima ancora che me accorga lei è già scomparsa avanti. Mi sembra dia vere una inerzia pesantissima per rimettermi in moto e rido di questo. Non ho più nulla da sudare e mancano ancora tre chilometri a casa. Quante volte mia figlia sarà uscita di casa con le stesse aspettative. Quante volte sono uscito io di casa con le stesse aspettative. E quante volte sono tornato a casa abbastanza deluso che il mio piano perfetto alla fine non era così perfetto.
Ultima curva e poi c’è casa. Corro fino a quando il Garmin “bippa” sul chilometro preciso.
Non saprei dire quali sono state le ultime canzoni che ho ascoltato tanto ero preso nei miei pensieri ma ora che mi sono fermato mi viene un dubbio:
Ma perchè cazzo avrò mai messo “Survivor” di Mike Francis nella mia playlist?