Hey survivor, don’t you be afraid.

tomorrow

“Non c’è peggior allenatore di se stessi che se stessi” avevo detto ad Alderico qualche giorno fa. “Bisogna sempre capire quando l’allenamento è produttivo o se è il caso di fermarsi” avevo detto a Matteo. Evidentemente predico bene e razzolo male. Le gambe mi fanno male il fiato è rumoroso e ho la maglietta  e i pantaloncini completamente fradici. Eppure nonostante tutto voglio portare a casa questo allenamento più che altro per me, per il morale. Per dirmi “Ok ce l’ho fatta”. A quest’ora di sabato di Luglio sulla mura non c’è nessuno a correre. E forse è anche meglio visto il mio stato. Do una occhiata al Garmin. Vado a 6 al Km e ho le pulsazioni a 150 di media. No. Non va bene anche perché l’intenzione sarebbe di poi cercare di correre attorno ai 5. Decido di cambiare il solito percorso e prendo via Arginone con l’idea di andare fino a Porotto e tornare poi per via Modena.
Qualcosa cambia.
Questa strada di campagna con a fianco il canale è tutto sommato tranquilla e attorno sono scomparsi i rumori della città a favore di quelli della campagna. Cicale, cani che abbaiano, macchine che le senti da lontano mentre cambiano e accelerano e aumentano il loro rumore per poi superarti e tornare piano piano qualcosa di indefinito nel rumore di fondo. Sento che dopotutto faccio meno fatica. Il random del player musicale azzecca una sequenza eccellente e non devo portare le mani alle cuffie per saltare il brano continuamente. Che poi potrei anche cancellare qualche brano o forse anche qualche decina ma il fatto di averli, di poterli ascoltare qualora ne avessi voglia mi rassicura, mi fa sentire bene. Arrivo a Porotto che ho finito i 10 Km di riscaldamento che mi ero prefissato di fare. Per la magia del caso nelle cuffie mi passano in sequenza “Unfinished Sympathy” prima nella versione originale dei Massive Attack e poi in quella strumentale degli Hooverphonic. Imbocco la ciclabile di via Modena e aumento come da programma. Lo stato di tempo sospeso di poco fa si trasforma nuovamente in sofferenza. Vedo la mia ombra lunga sull’asfalto del sole basso al tramonto che benché deformata rende l’idea del correre male che attuo. Guardo il Garmin. Mi sono posizionato sui 5 al Km. Le pulsazioni sono salite a 160. Mi accorgo che ho sbandato leggermente nel guardare i dati. Cerco di stare concentrato. Regolo passo e respiro non trovo una combinazione ipoteticamente sopportabile per gli oltre 10 Km che mi dovrebbero portare a casa. Il caso mi propone in cuffia una cover al piano “Under the Milky Way”. Dovrei fare delle playlist con solo canzoni al piano. Mi piace immaginare che un giorno le canterò e le suonerò al piano. Rido fra me e me. La prima volta che ho avuto questo pensiero avevo forse vent’anni e adesso ne ho sessanta e tutt’ora non so ne cantare ne suonare il piano. Abbandono questa strada di pensieri perché sono troppe le cose che ho messo nella “To do list” e che mai ho fatto. Cerchiamo di pensare qualcosa di bello riguardo la corsa. Quali sono i più bei ricordi che ho legati alla corsa in se? Mi sono fatto spesso questa domanda e spesso le risposte sono state diverse. Ma forse alcune sono ricorrenti. Molte volte sono state sotto l’effetto della autoproduzione di endorfina  e cambia lo scenario ( neve, pioggia, sole ) ma la situazione era sempre la stessa: correre “forte” senza fare fatica. Anzi non era un correre, ma era un volare ad altezza fissa dal suolo, con le gambe e i piedi che quasi sfioravano il terreno. Altre volte sono state emozioni ricorrenti. Come quella sensazione che provi quando ti metti di fianco alla borsa buttata sul prato e ti metti i chiodi e fai quei due allunghi che ti faranno capire se è serata oppure no. Ecco quella sensazione mi manca. La vedo e la invidio negli occhi delle mie atlete ma non è più cosa mia, è cosa loro. Vorrei essere bravo a potere descrivere in qualche modo quel momento ma non lo sono. Sono ormai arrivato alle porte della città. La corsia ciclabile adesso diventa più frequentata da gente che va verso il centro. Per lo più adolescenti in bicicletta o monopattino. Guardo queste ragazzine dell’età circa di mia figlia più piccola e penso alle loro aspettative per il sabato sera. La maggior parte sono vestite in modo simile secondo le mode del momento. Mi passa una ragazzina che sembra uscita dalla macchina del tempo. Ha un vestitino a quadretti blu e bianchi e delle espadrillas alte che si legano alla caviglia. Ma quello che mi colpisce maggiormente è la scia di profumo che lascia dietro di se. E’ l’odore di un bagnoschiuma che ho probabilmente usato pure io ma che nel momento non ricordo. Il semaforo mi aiuta a raggiungerla. Facendo finta di nulla mi giro a guardarla. Ha le cuffiette e la faccia contenta e sorridente di chi sa che potrebbe essere una gran serata. Scatta l’avanti è prima ancora che me accorga lei è già scomparsa avanti. Mi sembra dia vere una inerzia pesantissima per rimettermi in moto e rido di questo. Non ho più nulla da sudare e mancano ancora tre chilometri a casa. Quante volte mia figlia sarà uscita di casa con le stesse aspettative. Quante volte sono uscito io di casa con le stesse aspettative. E quante volte sono tornato a casa abbastanza deluso che il mio piano perfetto alla fine non era così perfetto.

Ultima curva e poi c’è casa. Corro fino a quando il Garmin “bippa” sul chilometro preciso. 

Non saprei dire quali sono state le ultime canzoni che ho ascoltato tanto ero preso nei miei pensieri ma ora che mi sono fermato mi viene un dubbio:

Ma perchè cazzo avrò mai messo “Survivor” di Mike Francis nella mia playlist?

Quel qualcosa che

tomorrow

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La nostra avventura era cominciata un giorno di primavera. Mio moglie era sul divano e la mattina eravamo stati alla prima ecografia in cui avevamo sentito il battito del cuore della nostra prima figlia. Il pomeriggio un po’ in trance bivaccavamo in soggiorno consultando libri tutti uguali se quello che bisogna fare prima, durante e dopo il parto e ci scambiavamo impressioni sulla mattinata. D’improvviso mia moglie se ne usci con una frase che fu per me una rivelazione. “Ecco noi siamo due cuori”. A parte una vaga sensazione di stonatura grammaticale era la mirabile sintesi di quello che era il mio stato reale non virtuale e immaginato della cosa, dell’avere un figlio. Lei erano due cuori io ero fino a quel momento solo spettatore della cosa. Spettatore privilegiato, partecipe, interessato ma null’altro. Fino a quel momento con un po’ di vergogna pensai che tutto il mio apporto era stato un irrigidimento muscolare e un sospiro appena trattenuto prima del rilassamento. Tutto lì. Quella cosa ed io ancora nonostante tutto non avevamo nulla di reale di magico fra noi come invece era tra lei e mia moglie.

Quella mattina di fine estate il parto ci furono alcune complicazioni durante il parto per cui il mio primo pensiero era per mia moglie, per la madre. Ma le cose cambiarono improvvisamente quando poco dopo quando tutto si era aggiustato mi ritrovai su una sedia con lei, la nuova arrivata in braccio. Nel momento esatto in cui lei mi prese con movimento istintivo il dito con la mano scoppiò dentro di me un sentimento nuovo, inaspettato. Forte come la prima volta che mi innamorai, potente come un tuono, dirompente come un fiume in piena. Era la paternità. Era l’inizio di qualcosa di nuovo che avrebbe cambiato la mia vita in maniera netta al punto da potere dire che ieri era un prima e l’oggi il dopo.

I dieci anni del dopo sono stati una riscoperta anche di me stesso, una rinascita, un confronto e un continuo apprendimento. Io non sarò mai la persona che dice che solo chi ha un figlio può capire certe cose, mi sembra insultante. Il problema è di chi vuole descrivere questo sentimento che dà della sua limitazione verbale la colpa agli altri che non capiscono. E tanto meno io nella mia povertà espressiva posso permettermi di provarci. Ma c’è un episodio che posso raccontare che anche se non spiega il sentimento può aiutare a individuare la direzione di quel qualcosa che.

A Maggio è tempo di saggi di danza e mia figlia ormai da qualche anno frequenta un corso di danza classica presso una scuola di danza. Il saggio finale di queste scuole non professioniste sono fatte ad uso e consumo dei parenti e amici. Quindi tutte le specialità a turno hanno un breve spazio per poi arrivare dopo due ore di spettacolo ad un “vogliamoci tutti bene” sul palco con ringraziamenti e applausi. Ormai ne ho fatti parecchi e mentre mi sono ovviamente emozionato a guardare mia figlia spesso mi sono annoiato nell’attesa del ringraziamento finale. E così quest’ultima domenica di maggio del 2013 dopo avere visto subito all’inizio l’esibizione di mia figlia e del suo corso guardavo distrattamente i palchi del Teatro Comunale alla ricerca di persone che conoscessi. Ero rapito da come l’interno dei palchi si illuminasse ogni qual volta che qualcuno accendeva lo schermo del suo smartphone e mi chiedevo se potesse e come essere organizzato uno spettacolo sincronizzando le luci che apparivano sugli schermi dei telefonini. Insomma tutto pensavo e guardavo tranne che l’esibizione di una qualche tipo di danza moderna che c’era sul palco. E poi improvvisamente ho sentito come un calore dentro un qualcosa che mi diceva di girarmi verso il palco. Mia figlia era lì che ballava, aveva preso il posto di una che si era infortunata poco prima. Io avevo sentito forte la sua presenza e la sua vicinanza, era quel qualcosa che descrivere non sai descrivere ma che c’è. Un legame, una linea, non saprei come descrivere perché sono povero di parole nel farlo. Ma tutte le volte che sento questa cosa ecco posso dire che quello è il mio sentimento di padre verso le mie figlie.

Ecco questa è la direzione di quel sentimento, di quel qualcosa che.

Guarda se metto una sedia sul balcone e ci salgo sopra la in fondo si può vedere il mare

mirrors from the past

“Aiutateami sto male. Aiutatemi, il mio bambino sta male.” A quelle parole si può reagire in modi diversi: si potrebbe correre lontano, far finta di niente e tirare dritto oppure fare come ho fatto io: rimanere lì un attimo impalati a guardare la chiazza di sangue e altro che si allarga sul vestito estivo. Una coda in autostrada non è un buon posto per partorire. Cambio di scena, la camera mi segue mentre corro lungo la corsia di emergenza urlando “Un dottore, c’è un dottore?”.  Mi sveglio di soprassalto  mi siedo sul letto. Sorrido al pensiero di quel ricordo. L’avevo poi trovato un dottore anzi un veterinario a dire il vero  ed insieme avevamo aiutato quella donna a partorire. Mi era rimasto impresso il fatto che da alcune auto lì vicino neppure si fossero preoccupati un attimo di scendere a vedere se c’era bisogno di una mano. Mi alzo dal letto  provo a bere qualcosa per vedere se questo stato di agitazione passa oppure no. Rimango in cucina appoggiato al secchiaio ad ascoltare i rumori del frigo per qualche minuto. Cerco di intuire l’ora guardando l’orologio a muro ma sono senza occhiali ed è impresa ardua data la mia miopia.

Spengo la luce e rimango in corridoio incerto sul da farsi. Andare  a letto ancora? A girarmi  rigirami finché  mia moglie non mi manda a cagare o fare qualcos’altro? Un libro? Un film? Chattare su Internet? Prendo il portatile e mi siedo sul divano in salotto, così con la sola luce dei lampioni che filtra dalla finestra semichiusa.  Guardo la scritta Ctrl+Alt+Del ma non faccio nulla. Lo appoggio sul tavolino e mi distendo sul divano a pensare ad alcun cose da organizzare il giorno seguente. Ma la testa ha deciso di seguire percorsi suoi. Mi viene in mente una chiacchierata fatta con Doug nel pomeriggio, non ricordo neppure più con quale mezzo o attraverso quale media: essendo entrambi “homini informatici” utilizziamo tutti i mezzi tecnologici a nostra disposizione, telefono, sms, skype, IM, email  e appena avranno perfezionato l’hardware la telepatia. Comunque facevamo l’analisi dei suoi tremila corsi qualche giorno prima. Il suo primo tremila in pista corso oltre i quarant’’anni.  E al di la dei freddi numeri era piacevole sentire il senso di divertimento di “esperienza” che veniva fuori. I tremila in pista non erano la mia specialità a suo tempo ne ho corsi pochi in carriera.  Forse una decina in tutto.

Le mie specialità preferite erano i millecinque  e i tremila siepi. Strana bestia la pista. Se una maratona ti regala forti emozioni cloroformizzate nella distanza e nel tempo, la pista è tutto più forte e più intenso. La maratona è un incontro con una donna compreso il corteggiamento durante la cena e tutti movimenti circolari di avvicinamento alla preda fino al sesso in casa da lei con tanto di coccole finali. I millecinque sono una scopata selvaggia con una donna che mai avresti pensato te la avrebbe data. Scopi lì in auto in fretta e in equilibrio precario cercando improbabili appoggi per potere essere più penetrante nel tuo “fendente” e trovandoti poco dopo con il fiato grosso sudato ed una strana sensazione addosso. Sì la corsa in pista è così. La maratona è più zen ( om ), chiacchieri , guardi attorno, pensi, ricordi. No la pista non è così. ‘ una muta di cani lanciati a sbranarsi dietro alla volpe virtuale’. Entrambe queste corse sono sofferenza ma mentre la maratona  è il trionfo del decadimento per fatica ( logaritmico Doug, logaritmico ) l’altra è lo stupro delle carni, è l’urlo di dolore del masochista che si infila il coltello bollente nelle carni. Non c’è fatica in pista. Non ho mai sentito un vero pistard dire “ho fatto fatica” ma ho sentito dire “ho sentito male”,”non riuscivo a respirare”. La pista è irrazionale. Passi al primo giro  e ti dici? “Ma chi cazzo ce la fa a continuare così?” E invece ti spoglieresti pure della carne pur di arrivare , figuriamoci se ti preoccupi delle palle cadute in partenza. E’ una immersione in apnea. I rumori, gli odori e i sapori sono diversi.  Ma non c’è mai tempo per elaborarli in gara. Lì vai ad istinto. Ci pensi dopo. Dopo l’arrivo quando fai quei cento metri verso la tua borsa in uno stato fra la vita e la morte apparente. Come un fantasma. E tutto questo te lo sei guadagnato in lunghi inverni sotto la pioggia, la neve ad  allenarti da solo. Già. Perché c’è quel momento prima della partenza in cui fai qualche allungo e percepisci lo stato del tuo corpo. Se oggi è giornata sì oppure no. Se nonostante il dolore  il sapore del sangue in gola volerai oppure no. Perché la sensazione che cerchi come un drogato è quella.

Datemi la mia dose di volo.

Fuori la luce violastra dell’alba ha preso il posto di quella gialla arancione dei lampioni. Già si sente qualche macchina passare. Rifletto su quanto mi manchino quei momenti, quelle serate in giro sulle piste della mia regione a sputare sangue. Sul tavolino il PC portatile si è spento da solo con un rumore che è sembrato quasi un soffio, un sibilo di insofferenza. Lascio che i pensieri scorrano da soli a mente libera. Una volta ero fuori a cena con un amico medico che mi raccontava che aveva assistito per la prima volta d un parto e che diceva che in fondo una delle cose più belle che esistano era contornata da merda piscio sangue e sofferenza. Perché alla fine la donna che partorisce perde il controllo dl proprio corpo urla caga e piscia mentre è straziata dal dolore del parto, torna al suo stato naturale di “animale”.

Come animalesco e per nulla romantico è il rapporto sessuale in fondo. Sono due animali che si accoppiano quelli. Puoi metterci le luci soffuse le mani che romanticamente si stringono ma in realtà i termini dl ragionamento in quel momento sono altri. I termini sono cazzo, figa, tette, culo, lingua, dita, mani in tutte l possibili combinazioni.  Tempo fa fermo in coda in autostrada seguivo un ragionamento sulle cose che mi avevano veramente “sconvolto” nel corso della mia esistenza. Avevo mentalmente elencato l’amore, il sesso, la corsa, la paternità in ordine vagamente cronologico.  Tutte queste cose hanno cambiato la mia vita nella testa e nel corpo, mi hanno scombussolato lo stomaco.

Il pensiero era stato interrotto dalle urla di una donna che chiedeva aiuto per il suo bambino. Ma anche se quello era avvenuto quindici anni prima poco importa data la circolarità del tempo che esiste da sempre nella mia testa.

Sono le cinque e trenta. E’ ormai ora di alzarsi.

Relax and Swing

mirrors from the past

I primi passi sembrano i più difficili. Le gambe legnose e doloranti. Solo due mesi fa questa sensazione durava almeno due chilometri ora invece bastano cinquecento metri per ritrovarmi a mio agio, nel mio mondo imperfetto ma così rassicurante. Raggiungo il mio solito percorso di corsa, non ci sono studenti in giro perché hanno chiuso le scuole. Tutta la città è silenziosa soprattutto la notte. Perché la verità è che anche qui per noi che nonostante non abbiamo avuto gravi danni la vita è cambiata dal venti di Maggio. Mia figlia a quest’ora è ancora alla scuola materna ed è per questo che corro su percorsi in cui possa vedere case e uffici, nella città e non nel verde. Il mio baricentro è la sua scuola e quanto tempo posso metterci a raggiungerla in caso di bisogno. Tutto per noi è cambiato. Guardo il cronometro, quattro e quarantacinque al chilometro. La scuola è a ottocento metri, posso essere là in circa tre minuti. Non è stato il mio primo terremoto forte. Quando c’è stato quello nelle Marche e Umbria io ero a Perugia. Ma a quel tempo non avevo figli e non ero a casa. Mi ero affrettato per andare a casa, il mio luogo sicuro. Questo invece mi aveva colpito nella mia casa, rendendola improvvisamente non più “la casa” ma una abitazione.

Quattro e trentacinque al chilometro. Dovrei calare ma ho voglia di correre , di stancarmi a morte, di non pensare. Il venti di Maggio alle quattro ero a dormire sul divano. La piccola aveva fatto un brutto sogno e mi aveva espropriato il lettone. Avevo aperto gli occhi incuriosito dal rumore. Un rombo crescente che veniva da tutto attorno non dalla strada. Mi ci sono voluti alcuni secondi ho realizzato cosa fosse. I vari oggetti che c’erano sulle librerie hanno cominciato a volare per terra e a rompersi, quadri , ricordi dei viaggi, libri. Il pavimento ha preso quasi a ribollire e subito la luce è andata via. Le varie “spie” del televisore, del decoder sono scomparse, il divano si è girato. Le tapparelle le avevo tirate completamente giù perché era serata con manifestazioni del Palio e quindi c’era molta confusione per strada. In mezzo al rombo e agli acuti delle cose che si rompono sento el urla di mia moglie e delle bambine arrivare dalle camere da letto. Cerco di raggiungerle orientandomi con le loro urla e l’istinto e finalmente ci arrivo. Tiro su la tapparella per avere un po’ di luce, recupero mia moglie cerco la piccola che si è nascosta sotto le coperte. L’altra bimba è corsa dalla sua camera fino a me. Cosa fare ora? Scappare fuori o ripararsi sotto un tavolo? Mi viene in mente che un amico dei pompieri mi aveva detto che se c’erano già dei cedimenti e dei calcinacci che cadevano bisognava subito ripararsi altrimenti si poteva scappare fuori. Sono molto miope da sempre e forse questa mia abitudine a vedere le ombre invece che i dettagli fa si che riesca ad andare velocemente verso la porta. Quando siamo oramai sulle scale la scossa e cessata. Rimaniamo un attimo lì fermi a guardare se qualcosa accade. Mi moglie e le bimbe vanno in strada io torno un attimo su a prendere velocemente qualcosa per coprirle e mi infilo una tuta e le prime scarpe che trovo. Mia figlia più piccola mi salta in braccio e non scenderà più l’altra mi si nasconde dietro. Usciamo in strada, è tornata la luce fortunatamente. Andiamo verso la piazzetta perché ci sembra possa essere più sicuro là. Mentre cammino mi prende un senso di vomito fortissimo e mi sento le gambe mancare. Mi fermo e mi appoggio con una mano al cofano di una automobile. Mia figlia mi dice “guarda papà delle pietre”. Sul tetto dell’auto ci sono alcune pietre e dei calcinacci. Guardo in alto e benché ci sia poca luce si vede distintamente un camino crollato che viene tenuto su miracolosamente dalla grondaia. Si sente la prima sirena poi due poi tre poi tantissime. Ho preso il cellulare con me. Telefoniamo alle nostre persone più care ostentando sicurezza e nascondendo il terrore.

Quattro e venticinque al chilometro. C’è un caldo infernale. Mi sfilo la canottiera e corro a petto nudo. Non è che togliersela faccia diminuire di granché il caldo ma è più la sensazione di libertà che da sollievo. Due ore dopo rientriamo in casa. Ma dal quel momento non è più la nostra casa, è solo la nostra abitazione. Raccogliamo le cose cadute, decidiamo di guardare su internet cosa è successo per evitare che immagini troppo crude nei telegiornali possano spaventare le bambine. Mi addormento sul divano con mia figlia ancora aggrappata al collo. Il giorno dopo cerchiamo di fare finta che tutto sia passato, che ci siano solo da raccogliere i cocci della città ferita e aspettare che passi lo spavento. Perché qui noi siamo abituati così. Il terremoto passa e va. Non rimane sotto i tuoi piedi, dentro il tuo cuore. Ma ecco che nel pomeriggio una nuova scossa ci fa capire che qualcosa è cambiato. Ti insinua il dubbio, la paura. Cosa fare? Vedo il terrore negli occhi delle mie figlie e ripenso che se la scossa della notte fosse stata solo un poco più forte oppure più vicina la casa non avrebbe retto probabilmente. Ma neppure le case vicine. Ci sarebbe stato un disastro. Convoco le mie figlie e le istruisco con un discorso che mai avrei pensato di fare loro ma che adesso mi sembra sensato. Mi rivolgo alla più grande e le dico che se papà le dice di correre fuori lei deve prendere per mano sua sorella e insieme correre più in fretta possibile verso la piazzetta dove siamo stati la mattina. Senza girarsi, senza guardare. Lei mi guarda stupita e mi chiede cosa avremmo fatta io e la mamma. Le sorrido e le dico che noi poi saremmo sicuramente arrivati solo qualche secondo dopo e che ci saremmo trovati poi là. Balbetto qualcosa sul fatto che dobbiamo pure prendere la gatta ma insisto più volte sul fatto che se io dico corri loro devono fare così. Smetto di insistere solo quando lei smette di fare domande e dice che va bene, che ha capito. Alle otto di sera un’altra scossa ci toglie completamente la speranza che il peggio sia passato. Qui in questa casa, pardon, in questa abitazione sarebbe impossibile dormire. Decidiamo di andare a dormire in auto. Dormire è una parola vuota per il momento.

Tre e quarantacinque al chilometro. Faccio fatica a respirare. Ma voglio continuare a correre a questa velocità finché non ce la faccio più. Voglio fermarmi un attimo prima di stramazzare al suolo. Perché dal venti Maggio non c’è verso di dormire più di qualche mezz’ora di seguito. Ogni voce, ogni auto che passa, ogni aereo che sorvola la zona provoca un mancamento al cuore e un groppo allo stomaco e per quanto fingi con te stesso che si stia attenuando dentro basta un rombo diverso dal solito per riportarti al punto zero. Figuriamoci quello che ha fatto il terremoto di otto giorni dopo. Manca meno di un chilometro a casa. Alla mia abitazione. Cerco di tenere il ritmo massimo per morire solo di fronte al portone. Passo di fianco al palazzo Schifanoia. E’ transennato o meglio hanno infilato delle specie di picchetti di ferro nell’asfalto e hanno delimitato la zona con il nastro bianco e rosso. Mentre ci corro a fianco e allungo la mano fino a toccarlo, quasi ad accarezzare la mia città ferita. Sono ferite lievi ma profonde per fortuna ma come brutti tatuaggi indelebili che puoi nascondere ma rimangono. Raggiungo una bicicletta guidata da una mamma e dietro un bimbo girato spalle al verso di marcia. Mi guarda e mi sorride, mentre lo supero mi allunga la mano “per dargli il cinque”. Gli do il cinque e lo sorpasso. Corro gli ultimi cinquecento metri pensando che è ora di riconquistare la propria casa e mi sembra che il traguardo simbolico sia proprio il portone di casa. Così accelero quasi fosse la volta finale di una corsa alle Olimpiadi. Finisco il fuoco dentro abbondantemente prima del traguardo ma riesco a proiettarmi oltre.
Ho appena vinto casa mia.

Etciù

mirrors from the past

Le piscine sono una ambiente troppo rumoroso per distrarsi a pensare. Dalla tribuna osservo mia figlia aspettare il proprio turno con l’istruttrice di nuoto. Fa tenerezza nel suo costume intero sportivo e nella sua cuffia con Winnie Pooh sopra. Fino a poco fa chiacchieravo con la madre di una compagna di corso di mia figlia ma poi le era squillato il cellulare con una imbarazzante “Cavalcata delle Valchirie” e si era allontanata a parlare fitto fitto. Cerco di inseguire qualche pensiero ma non riesco, troppe le distrazioni e i richiami ad altro. Cerco di distendere un po’ le gambe nella ristrettezza dei posti a sedere. La madre é ancora al telefono. Si è appoggiata alla ringhiera e fra la maglietta e i jeans è sbucato un tatuaggio che finisce più in basso. E’ una ragazza piacente questa, forse un po’ trasandata ma in forma. Guardo il tatuaggio e cerco di immaginare come finisca in basso, verso il sedere. Distraggo lo sguardo e i pensieri. Si dice che l’uomo pensi al sesso circa 300 volte al giorno contro le 20 circa di una donna. Forse è vero. Forse 320 o 280 ma comunque tante. La madre continua a stare in quella posizione ed anzi involontariamente ha accentuato lo sporgere del sedere. Guardo un attimo i jeans tirati sulle natiche. Se continuo così oggi farò molto più che trecento. Giro la testa dalla parte opposta alla ricerca di qualcosa di diverso. Vedo il bar. Ecco un caffè ci starebbe bene. Scendo dagli scaloni in cemento e mi dirigo verso il bar guardando distrattamente verso le piscine.

Prendo un succo di frutta, il caffè non era il caso e mi siedo a queste specie di tavolini alti, con seggiolini su cui devi arrampicarti per poi appolaiarti. Secondo me li fanno scomodi apposta per impedire che la gente ci si fermi a lungo. Sfoglio un giornale locale che è pieno di nulla e pettegolezzi e guardo attraverso la vetrata la piscina. L’acqua è un elemento che non mi è mai appartenuto. Abbiamo convissuto in maniera spesso civile ma l’acqua non è il mio elemento. Ho fatto diversi corsi di perfezionamento al nuoto, pure per il brevetto di sub ma io e l’acqua rimaniamo in due ambienti distanti, non ostili ma distinti. L’unica acqua che amo è la pioggia. Magari correndo. Ecco la primavera è il momento ideale per correre sotto la pioggia. Ci sono quelle piogge sottili che le attraversi come fossero nebbie e pure quegli acquazzoni insistenti. Vedo la mia immagine riflessa sul vetro e penso solo ad alcune volte che ho corso sotto la pioggia con una gioia primitiva, infantile. Anche oggi piove. Sarebbe un giorno perfetto per andare a correre. Se solo potessi. Vengo distratto dai miei pensieri da un piccolo rumore, quasi un singhiozzo. Nell’altro tavolino seduta di fronte a me c’è la figlia della barista, una ragazzina adolescente. Prima avevo sentito che veniva sgridata perché non va bene a scuola e per punizione non avrebbe potuto uscire questa sera, questo sabato sera con gli amici. Sul tavolino ci sono dei libri e dei quaderni aperti. Ogni tanto viene ripresa dalla madre. Il libro è di matematica. Lei piagnucola e dice che non capisce niente di matematica. Torno a guardare la mia immagine riflessa sovraimpressa al mondo della piscina la dentro. Sono sempre stato portato per la matematica. Alle superiori pur senza avere mai studiato avevo la media dell’otto. Le dimostrazioni dei teoremi mi erano lampanti da subito, non c’era bisogno di riguardarli. Alla università la stessa cosa. I due esami di analisi matematica li avevo superati senza prepararli, limitandomi a sfogliare il programma e a vedere se lo sapevo. Ma per me una lavagna con i vari passaggi risolutivi era chiara evidenza, non mi ci perdevo. Era quasi rassicurante . La prof di latino al Liceo aveva detto che ero un traditore perché diceva che il Latino e la matematica erano la stessa cosa. E io le avevo risposto “Prof la matematica la vedo, la sento il Latino no”. Sono sicuramente dotato più della media in matematica ma non sono un genio. Ma nonostante tutto non ho mai voluto coltivare questo talento. Ho preferito seguire mille altre cose in cui ero sicuramente molto meno dotato. Sorrido a al pensiero di cosa avrebbe potuto essere la mia vita se avessi seguito questa strada. Forse migliore, forse no ma comunque non era quella la direzione che mi interessava. La adolescente all’ennesimo rimbrotto della madre ha riempito gli occhi di lacrime. Non vuole piangere e non vuole farlo vedere alla madre soprattutto. Quante volte sono stato chiuso in camera per punizione perché non volevo andare da barbiere per poi rimediare degli imbarazzanti tagli a spazzola. In quei lunghi giorni di isolamento pensavo “Vedrai poi quando avrò diciott’anni…”. Sono poi arrivati quei diciotto e non è successo nulla. L’adolescente tiene la testa praticamente piegata sul quaderno in modo che i capelli le coprano la faccia dalla vista della madre. Ma io vedo un paio di lacrime cadere sul quaderno e mescolarsi all’inchiostro generando una nuvola, anzi una macchia che ben rappresenta la matematica per quella mente. Le chiedo cosa stia studiando di matematica. Lei alza lo sguardo verso di me. Mi fa una grande tenerezza con quegli occhi pieni di lacrime. Se vuoi ti aiuto un attimo. Nel dirlo guardo la madre per averne il consenso. Mi siedo al tavolino con lei e guardo il libro degli esercizi. Quando ero all’università avevo dato tante e tante ripetizioni di matematica che nonostante sia passato tanto tempo è un attimo capire cosa dire e come dirlo. Le spiego come risolvere quel tipo di esercizio giocandoci e scherzandoci su. Mi accorgo che ha capito perché una volta arrivata in fondo mi guarda con gli occhi fuori dalle orbite sorridente, confusa, stupita. Si getta a capofitto nell’esercizio seguente e lo risolve da sola mostrandomi di avere capito il meccanismo. Da come mi guarda si intuisce che pure lei ora vede la matematica, per lo meno quella in quello esercizio. E’ una iniezione di fiducia e di conforto. Sorride e mi ringrazia mentre vado via che sta per finire la lezione di mia figlia. Mentre cammino sulle tribune mi giro a guardarla ancora una volta. Ha la testa su e si sta facendo la coda. Non uscirà lo stesso questa sera con i suoi amici ma sembra stare meglio.

La madre tatuata è ancora ala telefono nella stessa posizione ma il suo tatuaggio non mi solletica più la fantasia. Ho in mente solo una cosa ora. Riprendo mia figlia, la lavo, la asciugo e la vesto. In macchina ho la sua mantellina para pioggia e gli stivali di gomma. Giriamo giusto dietro la piscina dove c’è un parcheggio semivuoto pieno di pozzanghere. La vesto bene che non si bagni e poi usciamo entrambi sotto al pioggia a giocare con le pozzanghere.

Lo so, mia moglie non approverebbe, ma io quando ero piccolo non ho mai corso dentro le pozzanghere con mio papà. Me lo ricorderei bene. Esattamente come ora ricordo a faccia di mia figlia mentre mi insegue dentro una pozzanghera che potrebbe essere un lago.

Etciù.

Io navigo a vista

mirrors from the past

Mi rendo conto dell’errore appena entrato, guardando come è vestita la centralinista. Subito mi viene in mente che quella sera hanno la cena aziendale e che mi avevano pure invitato. Impossibile rifiutare ora che già sono lì. Seduto al bar del ristorante mi sento più interessato al tintinnio del ghiaccio nel mio bicchiere che ai discorsi delle altre persone attorno a me. E’ uno di quei posti spersi nella campagna padana con pessimo ristorante e pista da ballo incluso. Uno di quei posti in cui le stelle di periferia cercano di mostrare la loro merce ai ragazzotti con le Golf colore canna di fucile o improbabili abarth create dal carrozziere di fiducia. La serata è già segnata. Ne ho viste e vissute diecimila di serate così. Impiegate scontente che vivono saltando dai loro due mondi paralleli casa/lavoro cercando sogni e certezze ora in uno ora nell’altro. Ascolto distrattamente la ragazza seduta accanto a me. Pensando di farmi piacere lei mi parla di computer e software. Vorrei girarmi e dirle che lei il computer sarebbe meglio non lo usasse nemmeno come soprammobile ma mi limito a far tintinnare il ghiaccio nel bicchiere. Lei mi dice che naviga a vista nel mondo del computer perché non ci capisce niente. Alzo lo sguardo dal mio bicchiere e le dico che è vero. Lei mi chiede cosa sia vero. Io le dico che è vero che lei non ci capisce niente. Ma lo dico con il sorriso e quindi lei lo prende come una battuta e continua a sproloquiare. Mi appoggio con i gomiti sul bancone e guardo attorno a me sempre con questo fastidioso ciarlare nell’orecchio. E’ la seconda volta nel giro di pochi giorni che sento dire navigare a vista. Ora da questa sciaquetta con le tette all’insù e qualche giorno fa da un caro amico. Anche lui come me attraversa un periodo nero e mi aveva detto che navigava a vista. Pure io navigo a vista. Non solo ora però ma da sempre. Da tutta la vita. Ormai sono arrivati quasi tutti e ci si può accomodare ai tavoli. Per le cene aziendali la scelta del tavolo giusto è fondamentale. Donne segretamente innamorate da anni del loro capoufficio hanno solo questa occasione per farsi male. Arrivisti devono essere assolutamente al tavolo del capo per dire lui quella loro idea tanto furba e tanto intelligente. Ma bene o male mi sembra che verrà creato grossomodo la stessa disposizione che tengono in mensa. Qui il gruppetto dell’ EDP, lì quello delle spedizioni, la il magazzino, questa sera vestiti bene e quindi non ghettizzati nelle loro tute da lavoro. Io non ho posto assegnato qui. Sono un consulente esterno. Aspetto solo che tutti si siedano, non voglio essere loro d’impiccio nella serata che servirà come argomento base per le prossime cento pause caffè alla macchinetta. Aspetto di sedermi dove capita. Anzi scelgo fra i posti liberi quello dove conosco meno gente, almeno non mi romperanno le scatole con argomenti di lavoro. Al mio tavolo si sforzano di essere gentili con me. La ragazza alla mia destra si sforza di spiegarmi le situazioni di cui parlano. Io cortesemente la lascio fare e sto al gioco ma sono assai poco interessato a questo microcosmo. Alla mia sinistra c’è una donna decisamente scontenta di dove ha dovuto sedersi. E’ innaturalmente troppo magra. Porta un vestito che nelle sue intenzioni dovrebbe essere sexy e provocante ma invece sottolinea solo i suoi difetti. Non fa altro che parlare male delle sue colleghe e dei suoi colleghi. A sentire lei tutti ci hanno provato con lei. Provo un cordiale rancore per questa donna e non perdo occasione per manifestarlo. Di fronte a me una ragazza di non più di venticinque anni. Bella, vitaminica. Con un corpo tonico e un sorriso spiazzante. Parla bene, non è volgare, non è antipatica ma mi sembra insulsa. Ha le cose giuste al posto giusto. Avessi vent’anni in meno potrei perderci la testa per una così, con la sua camicia quasi maschile però aperta quel tanto che basta a farti intravedere l’attaccatura del seno ma non di più. Con quei jeans che pur senza fasciare fanno immaginare più che fosse nuda. Con quei lunghi capelli che sembrano spettinati ma che offrono splendidi sguardi di tre quarti. Avessi la sua età ne sarei probabilmente innamorato pazzo ma adesso non mi muove neanche la minima traccia di libido. Non ci farei sesso neppure se lei lo volesse e neppure mi pagasse. Già. Negli ultimi tempi il sesso ha cominciato ad essere non più così presente nei miei pensieri, neppure a parole. Pure lì navigo a vista. Aspetto che accada. Guardo oltre la prua della barca attendendo che qualcosa accada. La cena prosegue senza tanti scossoni verso le grappe e i caffè. Adesso basterà fare ancora un po’ di presenza e poi potrò andarmene. Nella sala a fianco c’è una pista da ballo con tutto attorno un infinito bancone bar. Mi siedo su uno scomodissimo trespolo e guardo i movimenti delle masse bevendo qualcosa di super alcolico dal colore E122. Il gioco di sguardi che si era consumato ai tavoli ora cerca una attuazione. Le cacciatrici e i cacciatori si muovono verso le loro improbabili prede. Qualcuno ha già bevuto troppo e sbaglia tattica da subito. Pochi scambi di parole e ritorna al gruppo di partenza. La bionda del bar è un gran pezzo di figa. Inutile usare altre terminologie. A prima vista sembrerebbe stupida come una campana nel deserto ma sprizza prestanza fisica. Cerca il consenso degli sguardi maschili in ogni suo movimento. Secondo me le piace. Forse ci gode pure in questo. Si muove veloce fra bottiglie e bicchieri, seguendo per quanto può la musica assordante che c’è. Ha un accento spagnolo ma secondo me viene dal sud america. Anche lei secondo me naviga a vista. La festa aziendale procede bene. Qualche ragazzo fra quelli del magazzino si muove verso qualche segretaria. Timidamente, con circospezione e attenzione. Facendo semplicemente quello che farebbero se fossero un ragazzo e una ragazza. Ma invece sono un ragazzo e una ragazza che lavorano in due lontani reparti della stessa grande azienda. L’ossuta megera che era seduta alla mia sinistra balla nervosamente mettendo in mostra la sua merce stantia. Cerco di individuare chi sia l’obiettivo di tanta abnegazione. Sembrerebbe il direttore del reparto spedizioni estere, un calvo cinquantenne con pancetta che sul suo PC ha una raccolta di jpg di trans e travestiti. Nonostante siano più o meno tutti racchiusi in pochi metri quadrati sono più lontani che mai fra di loro. Mi rigiro verso il bancone del bar. Ho il bicchiere vuoto e la barista si offre subito di riempirlo. Me lo mette davanti in maniera decisa ma gentile e poi con il suo accento spagnolo mi chiede come mai non vada a ballare. Le sorrido e le dico che sono il peggiore ballerino del pianeta. Lei ride e dice che chi ama ballare non è bravo a fare sesso. Le rispondo che ne il ballo ne il sesso mi interessano in questo momento. Probabilmente questa cosa la spiazza un poco. Secondo me si aspettava una risposta del tipo “vieni qui che te lo faccio vedere io” con annesso verso da gorilla in calore. La ragazza che avevo seduto di fronte a me , Simona, ha anche lei il suo obiettivo, ma lui sembra più interessato ad un’altra. E così lei cerca lui ma lui cerca l’altra. Ma l’altra non cerca lui ma accetta la corte solo per far vedere alle altre che lei è desiderata. Simona non la prende bene. E si mette a bere nervosamente. Prima a tavola chiacchierando mi aveva detto che lei beveva solo gin tonic. Ne faccio preparare uno e glielo porto. Ritorno però subito al mio posto al bancone del bar. Dopo un poco lei arriva e mi ringrazia. Indico verso la pista da ballo e dico “Bello stronzo, lui”. Lei sembrava non aspettare altro per potere sfogarsi e parte con cinque minuti di rabbia e frustrazione. La lascio parlare, limitandomi ad acconsentire con la testa. Penso che lei non naviga a vista. Nonostante il momento trasuda programmazione. Passata la rabbia dello sfogo si vergogna per le cose dette e si congeda velocemente. Mi rigiro verso la barista che ha osservato la scena. Non c’è quasi nessuno nel locale. Mi chiede se faccio il confessore, se sono un prete. Le dico di no. Mi chiede se mi piace ballare. Capisco che allude al fatto se mi piacciono le donne o gli uomini. Alzo la mano e le faccio vedere la fede. Mi dice che quella non conta. In fondo ha ragione. Mi porta da bere e dice che lo offre lei. Ne ha portata una anche per lei. E’ una tequila boom-boom, come la chiamano qui. Mi porge il limone e il sale e poi prepara la tequila sbattendo il bicchiere rumorosamente sul tavolo ed offrendomelo. Fa lo stesso con lei ma accompagna la bevuta con un passo di danza. E’ di gran lunga la persona che mi è più simpatica nel locale questa. Il tempo passa amabilmente con lei. Ma sullo sfondo nessuno dei due dipana una tela di corteggiamento, ma solo divertimento. Mi sento bene con questa ragazza capitata fin qui dall’altra parte del mondo. Non ci sono secondi fini. Solo simpatia reciproca che non ci si nasconde. Si ride e si scherza sui tentativi improbabili di abbordaggio che si fanno sulla pista. Alla fine invece che pochi minuti rimarrò lì fino alla chiusura. Guardando le facce delle persone che escono mi rendo conto che per la maggior parte di loro le cose non sono andate come speravano. Rimangono solo i due ragazzi di prima ad attardarsi. Quello del magazzino con la segretaria dell’ufficio corrispondenza. Io e la barista guardiamo la scena e io sussurro: “ E dai dagli quel numero di cellulare…”. La barista mi appoggia e sottolinea anche lei. Finalmente lui si decide a chiederlo e lo memorizza subito mentre lei lo detta. Lo controllano una, due, tre volte che sia giusto. Io e la barista brindiamo al fatto sinceramente contenti. Mi alzo per salutare e andarmene. Le dico che ho passato una bellissima serata e neppure so come si chiama. Lei dice che il nome non è importante e pure lei si è divertita come non le succedeva da tanto tempo. Esco. Fortunatamente sono venuto con la mia automobile e non dipendo da altri. La avvio e aspetto che le altre auto sgombrino l’uscita prima di partire. Nella mia vita ho sempre navigato a vista. Quando ero innamorato pazzo da avere i crampi allo stomaco, quando ero depresso e stanco. Pure quando mi sono sposato e sono diventato padre nonostante tutto ancora navigavo a vista. Nelle varie difficoltà dell’ultimo anno ho dovuto obbligatoriamente farlo perché non sapevo cosa poter aspettarmi dal domani. Ma non mi è mai pesato farlo. Anzi. Anche questa ragazza la dentro naviga a vista. Per finire dall’Argentina in questo triste e sporco locale di periferia ha sicuramente navigato a vista, spinta da chissà quali burrasche. Forse per questo ci siamo annusati subito, sentiti simili. In un mondo di obblighi e programmi forzati forse i navigatori come noi sono solo ripugnanti sognatori virtuali che non osano prendere decisione. Chissà. Accendo i fari. In un allargarsi di carreggiata una provinciale con il suo fosso a lato mi porterà sulla statale poi sull’autostrada ed infine in città.
A casa.
Navigo a vista verso casa

The Mutanga Marathon

dreaming


Mutanga è il nome locale di un paesino che c’è al confine nord del brasile. Sulle carte non è segnato come Mutanga. Ma da tutti i non nativi viene chiamato così non so perché. O meglio mio padre me lo aveva spiegato ma non me lo ricordo più. Se non fosse per l’estrazione di un minerale prezioso dai fanghi che sgorgano della terra a mutanga ci sarebbero solo quattro capanne. Ed invece C’è un centro di estrazione e trasformazione che ospita almeno 500 occidentali e attorno si è sviluppato un paesino di circa 5000 abitanti.

A mutanga si corre una maratona. Il 31 Dicembre. Ci partecipano poche decine di persone. La cosa strana di questa maratona è che non parte mai alla stessa ora. Già. Questa maratona è nata per scommessa ad una pranzo diversi anni prima. Quattro inglesi fecero una scommessa che avrebbero corso una maratona in meno tre ore. Nel pomeriggio misurarono il percorso e visto che era l’ultimo dell’anno decisero che sarebbero partiti alle nove di sera. Così se ci avessero messo più di tre ore potevano essere presi in giro perché ci avrebbero messo più di un anno ad arrivare. Se invece fossero arrivati sotto le tre ore sarebbero arrivati in paese durante i festeggiamenti dell’ultimo dell’anno. Detto fatto. Il primo ci mise 3 ore e 20. Da allora a Mutanga tutti gli anni il 31 dicembre fanno una maratona che parte a mezzanotte meno il record della corsa. Solo chi farà il record arriverà entro l’anno. Tutti gli altri ci metteranno un anno per farlo. Mio padre è qui per l’ONU come osservatore sugli effetti dell’estrazione di questo minerale. Sembra possa essere tossico. Non solo sembra stia provocando degli smottamenti del terreno. Sono venuto a trovarlo qui in occasione delle vacanze natalizie anche perché altrimenti non ci incontriamo mai. E’ vecchio e malato anche se non lo dice e ho spesso la sensazione che non ci rimane molto tempo da vivere insieme. Anche se questo posto è nel buco del culo del mondo e fa schifo anche ai maiali sono venuto a passare qualche giorno con lui. Imparo della corsa il giorno appena arrivato. Arrivare qui non è uno scherzo. Servono due giorni di viaggio partendo dal Venezuela. Il record della corsa è di 2h44′30″. E’ un tempo alla mia portata visto che mi sto preparando per la maratona di Londra e ho già corso in allenamento fondo lento 40 chilometri in due ore e quaranta. Decido di farla e mi iscrivo. La partenza è fissata alle 21:15:30″. Nonostante la mia opposizione mio padre decide di seguirmi in bicicletta. Non vorrei perché per uno che ha il suo male non è la cosa migliore ma pure mi fa piacere, perché mostra un interessamento alle cose che faccio che mai aveva mostrato prima. Alla partenza siamo in sessanta circa. Tutti sono gentili con me. Mi vengono a stringere la mano, mi chiedono i miei tempi, mi augurano buona fortuna. C’è una sana allegria. Non sembra di essere ad una corsa competitiva. Oddio competitiva è una parola non adatta.

Partenza. Decido di impostare un ritmo di 3′45″ / Km. Giusto per vedere cosa accade. C’è chi parte fortissimo forse 3′10″ ma dall’abbigliamento e dal respiro intuisco che è solo una sparata per mettersi in vista prima di uscire dal paese. Ed infatti dopo due chilometri sono lì che tornano indietro. Fuori dal paese mi aspetta mio padre. Al terzo chilometro. Passaggio in 10′50″. Siamo un gruppetto di cinque persone. Mio padre mi affianca silenzioso. Non sa cosa dire. Non è mai andato in bicicletta di fianco a un corridore. A distanza di trenta secondi mi chiede “come va?”. Poi mi chiede se è questo il ritmo che intendo fare. Lo vedo dubbioso. Infatti per chi non ha consuetudine con al corsa sembra impossibile che certi ritmi possano essere tenuti così a lungo. Per arrivare a Mutanga non ci sono strade asfaltate ma attorno a Mutanga sì. Un asfalto bello scorrevole. Con i lampioni ai alti. L’hanno fatto per gli animali. Quelli della miniera spesso la notte venivano assaliti da piccoli animali selvatici. L’asfalto e la luce incredibilmente li tiene lontani ma fa impressione vedere nella foresta questa strada asfaltata e illuminata. Avanti da noi c’è il furgone dell’organizzazione con bottiglie d’acqua e qualche curioso e volontario ma spesso si fermerà a salutare amici o a dare un passaggio ad altri. 5000 in 18′50″, ultimo mille in 3′41″. Non sembra una gara ma un allenamento. Guardo mio padre sulla sua Bianchi vintage. Ha quella bicicletta da non so quanti anni. E’ una bicicletta da corsa. Se l’è portata in giro per il mondo scatenando curiosità e ilarità in chi lo vedeva nei posti più strani. Una volta me lo ricordo a Rangoon in giacca e cravatta con le mollette ai pantaloni affinché non andassero nella catena…Ora indossa un paio di bermuda militari. E’ magro e ormai consumato dal male ma sia io che lui fingiamo che non sia vero. Mi guarda e mi sorride. Quando vinsi la mia prima gara importante, un 1500 ai campionati del campus, alla partenza era lì sulla tribuna all’arrivo quando dopo avere vinto mi girai alla ricerca del suo sguardo non c’era più. Andato via. Partito per chi sa quale missione. E fra la partenza e l’arrivo erano passati meno di quattro minuti. Ora era lì. Di fianco a me. E ci sarebbe stato per oltre due ore mezza. Ultimo mille in 3′30″. Troppo forte. Lasciarmi prendere dai ricordi mi ha fatto inconsciamente aumentare il ritmo.

Gracchia il walkie talkie di mio padre. Sento pronunciare il nome di mia sorella Stella e poi mio padre rallenta perché ha difficoltà a parlare e guidare la bici. Intanto passo i 10 Km in 37′50″. Faccio velocemente i conti e mi viene una media di 3′47″/Km. Stella, mia sorella, da anni vive a Rio. Faceva la modella poi aveva smesso per problemi di droga. Ora viveva in una specie di eremo felice che si era creata nella casa di nostra nonna disegnando ceramica o altro. Ma più che altro cercando di domare il suo male di vivere. Io e Stella eravamo molto uniti. La nostra famiglia era sempre in giro per i mondo per lavoro. Difficilmente stavamo più di un anno nello stesso posto. Non abbiamo mai avuto un punto fermo perché mamma e papà anche prima di divorziare erano sempre impegnati. Insomma non avevamo che noi. Mio padre mi affianca. E’ pallido, terreo. Ho la sensazione netta che sia accaduto qualcosa. Mi dice cha hanno telefonato che Stella è ricoverata in ospedale per overdose. Non si sa se ce la farà. Abbasso lo sguardo e continuo a correre. Lo faccio meccanicamente. Chiedo a mio padre come si può fare per andare a Rio. Mi dice che fino a domani mattina è impossibile. Comincio a piangere ma continuo a correre. Stella. Stella mia. Mio padre armeggia con il walkie talkie e cerca di avere più informazioni. Io e Stella c’eravamo fatti spesso promesse eterne quando eravamo piccoli. Che ad esempio non ci saremmo mai lasciati. Osservo i cartelli a bordo strada con le scritte dei chilometri. Li vedo passare e mi sento come stordito. Mia sorella è in fin di vita ed io son qui che corro? In realtà non posso fare nulla. Per reazione sto solo continuando a fare quello che stavo facendo prima. Mio padre mi dice che sta molto male e che sta passando una crisi profonda. Fra un’oretta si saprà qualcosa di più. Se passa la crisi ce la può fare. Guardo il cartello dei 15 Km. Istintivamente guardo il cronometro. 58′15″. Ho corso questi ultimi cinque chilometri ad oltre i 4′ Km. Un’ora. Cerco di immaginarmi mia sorella nel letto di ospedale. Purtroppo non ho difficoltà a farlo. Già una volta l’avevo raccolta in overdose. Anzi eravamo entrambi strafatti ma solo eli aveva ceduto. Ero rimasto di fianco a lei tutta la notte e in ogni istante sembrava dovesse andarsene e poi magicamente ritornava.

Quando eravamo adolescenti la sera andavamo sul tetto della nostra casa a guardare le stelle e fantasticavamo sul nostro futuro. Indicando una stella cadente avevo ironizzato che quello ero io e facevo il fischio tipo oggetto che cade. Lei si era messa a piangere e aveva detto che quello non ero io e non potevo lasciarla sola lassù. Ed indicò la stella più luminosa, la più bella. E mi chiese di prometterle che sarei stato sempre con lei. Che almeno io ci sarei stato sempre. Le avevo promesso di sì. Ma in realtà negli ultimi anni mia sorella era solo una foto in cornice sulla scrivania. Un’ora non passa mai. La testa mi scoppia. Mi vengono in mente tutte le nostre case, le vacanze al sole, al mare. La mia festa di laurea in cui tutti i miei compagni di università mi chiedevano chi fosse e se la presentavo loro. Mio padre non parla con me. Armeggia continuamente con il walkie talkie. Chiede se ci sono novità. Non ci stupiamo che stiamo facendo una cosa assurda. Stiamo semplicemente continuando a fare quello che stavamo facendo. Mi accorgo del cartello della mezza maratona. Spingo il tasto lap sul cronometro e guardo. 1h19′25″. Ho corso gli ultimi chilometri sotto i 3′30″. Ma in realtà non ho il più pallido ricordo di avere corso. Hanno detto almeno un’ora. Quindi devo correre ancora almeno altri dieci chilometri prima di sapere qualcosa. Sto per impazzire. Mi rendo conto che mi sono aggrappato a questa corsa per non impazzire. E pure mio padre sembra esserne reso conto. Cerco di concentrami sulla corsa solo per togliermi i brutti pensieri dalla testa. Può farcela. E’ forte. Devo aspettare senza impazzire.

Quasi penso che sto correndo per lei. Anche se non è una olimpiade e neppure una corsa importante. Comincio strani meccanismi del tipo se corro meno di questo tempo vedrai che lei ce la farà. Guardo l’ultimo mille. 3′28″. Penso fra me e me: “Stella questa fatica e questa sofferenza e per te”. Comincio a pensare che possa esserci un parallelismo fra la fatica che faccio io e la lotta fisica che sta facendo Stella. Come se la fatica e il dolore che provo mi accomunassero a lei. Mio padre si accorge di questo. La percepisce. Ho la sensazione che abbia davanti a se che io e lei siamo una cosa sola. E che il legame che c’è fra noi è diverso. Che improvvisamente cominci arrendersi conto che lui non c’era. Continuo a correre dicendo dai Stella dai, che ce la facciamo. I percorsi del dolore sono diversi e infiniti. Io correndo a 3′27″ al chilometro in mezzo alla foresta penso di aiutare mia sorella in un letto di ospedale. Passaggio al venticinquesimo in 1h32′52″. La media totale dovrebbe essere attorno poco più dei 3′42″/Km. Penso al trentesimo chilometro come il traguardo parziale. Attorno a quel chilometraggio dovremmo avere notizie di Stella. Siamo io e mio padre da soli nella foresta a correre in silenzio. Io continuo a correre sotto i 3′30″. E’ il mio voto, la mia autopunizione per non esserci. Mio padre invece vede nella mia determinazione, nella mia sofferenza la sua assenza passata e irrecuperabile. Dal venticinquesimo al trentesimo a 3′27″ di media. Passaggio al trentesimo in 1h50′10″. Rallento un attimo, quasi avessi raggiunto il mio scopo e guardo mio padre in attesa che provi a ricontattare l’ospedale. Passano circa tre chilometri prima che ciò avvenga. 3 Km percorsi in 11′30″. Siamo al trentatreesimo chilometro in 2h01′40″. Mia sorella non è ancora uscita dalla crisi.

E’ sicuramente colpa mia. Se avessi corso più forte lei sicuramente ce l’avrebbe fatta. E’ solo colpa mia. Riprendo a correre più forte. Ma non riesco a scendere sotto i 3′35″ al chilometro. Le gambe sono dure. Non sento nulla. Solo piombo fuso nelle gambe. Mi sembra di sentire la voce di Stella che dice che dipende da me. Non riesco ad andare più forte. Piango e dico “Scusa Stella ma non ce la faccio, scusami”. Mio padre mi dice di insistere. Ho per la prima volta la sensazione di vicinanza di mio padre, di famiglia. Chilometro 35, 36, 37. Faccio sempre più fatica. Ogni sforzo ulteriore è come se non bastasse. La velocità è scesa attorno ai 3′50″ e faccio sempre più fatica. Mi sembra che Stella sia sempre più lontana per colpa mia. Chilometro 39. Gracchia il walkie talkie. Mio padre rallenta. Rallento pure io. So che ci diranno che è morta. E’ colpa mia. Se correvo più forte sarebbe stata viva ora. Il sorriso di mio padre mi coglie impreparato. Urla e dice che sta meglio e che ha chiesto un gelato. Chilometro 40. Tempo 2h26′10″. Ho una gioia esplosiva dentro. Mi sento esplodere. Le gambe hanno improvvisamente nuova energia. Tutto il mio corpo ha nuova energia. Cambio completamente ritmo. E’ come se da fermo mi fossi rimesso a correre. Quarantunesimo chilometro in 3′25″. La gente comincia ad essere per le strade. E’ gente allegra per festeggiare l’ultimo dell’anno. Fra poco ci sarà la festa per strada i fuochi artificiali. Io e mio padre voliamo. Quarantaduesimo chilometro in 3′05″. Ultimi 195 metri. Io emio padre attraversiamo la linea di arrivo insieme. Tempo totale 2h33′10″. Mi danno da bere e mi circondano per congratularsi con me. Non vedo mio padre. Chiamo papà. Ma non lo vedo. La festa sta per scoppiare. Non mi ricordo l’ultima volta che ho chiamato papà mio padre. Mancano pochi minuti a mezzanotte, all’ultimo dell’anno. Finalmente ci incontriamo e ci abbracciamo piangendo. Attorno a noi la gente comincia il count down alla mezzanotte e subito tutto attorno è un insieme di bottiglie che vengono stappate e di fuochi d’artificio di gente che si abbraccia e che si fa gli auguri. Ed io e mio padre lì in mezzo a piangere abbracciati.

Giusto in tempo.
Ho ritrovato mio padre prima di perderlo definitivamente di lì a poche settimane.