Relax and Swing

mirrors from the past

I primi passi sembrano i più difficili. Le gambe legnose e doloranti. Solo due mesi fa questa sensazione durava almeno due chilometri ora invece bastano cinquecento metri per ritrovarmi a mio agio, nel mio mondo imperfetto ma così rassicurante. Raggiungo il mio solito percorso di corsa, non ci sono studenti in giro perché hanno chiuso le scuole. Tutta la città è silenziosa soprattutto la notte. Perché la verità è che anche qui per noi che nonostante non abbiamo avuto gravi danni la vita è cambiata dal venti di Maggio. Mia figlia a quest’ora è ancora alla scuola materna ed è per questo che corro su percorsi in cui possa vedere case e uffici, nella città e non nel verde. Il mio baricentro è la sua scuola e quanto tempo posso metterci a raggiungerla in caso di bisogno. Tutto per noi è cambiato. Guardo il cronometro, quattro e quarantacinque al chilometro. La scuola è a ottocento metri, posso essere là in circa tre minuti. Non è stato il mio primo terremoto forte. Quando c’è stato quello nelle Marche e Umbria io ero a Perugia. Ma a quel tempo non avevo figli e non ero a casa. Mi ero affrettato per andare a casa, il mio luogo sicuro. Questo invece mi aveva colpito nella mia casa, rendendola improvvisamente non più “la casa” ma una abitazione.

Quattro e trentacinque al chilometro. Dovrei calare ma ho voglia di correre , di stancarmi a morte, di non pensare. Il venti di Maggio alle quattro ero a dormire sul divano. La piccola aveva fatto un brutto sogno e mi aveva espropriato il lettone. Avevo aperto gli occhi incuriosito dal rumore. Un rombo crescente che veniva da tutto attorno non dalla strada. Mi ci sono voluti alcuni secondi ho realizzato cosa fosse. I vari oggetti che c’erano sulle librerie hanno cominciato a volare per terra e a rompersi, quadri , ricordi dei viaggi, libri. Il pavimento ha preso quasi a ribollire e subito la luce è andata via. Le varie “spie” del televisore, del decoder sono scomparse, il divano si è girato. Le tapparelle le avevo tirate completamente giù perché era serata con manifestazioni del Palio e quindi c’era molta confusione per strada. In mezzo al rombo e agli acuti delle cose che si rompono sento el urla di mia moglie e delle bambine arrivare dalle camere da letto. Cerco di raggiungerle orientandomi con le loro urla e l’istinto e finalmente ci arrivo. Tiro su la tapparella per avere un po’ di luce, recupero mia moglie cerco la piccola che si è nascosta sotto le coperte. L’altra bimba è corsa dalla sua camera fino a me. Cosa fare ora? Scappare fuori o ripararsi sotto un tavolo? Mi viene in mente che un amico dei pompieri mi aveva detto che se c’erano già dei cedimenti e dei calcinacci che cadevano bisognava subito ripararsi altrimenti si poteva scappare fuori. Sono molto miope da sempre e forse questa mia abitudine a vedere le ombre invece che i dettagli fa si che riesca ad andare velocemente verso la porta. Quando siamo oramai sulle scale la scossa e cessata. Rimaniamo un attimo lì fermi a guardare se qualcosa accade. Mi moglie e le bimbe vanno in strada io torno un attimo su a prendere velocemente qualcosa per coprirle e mi infilo una tuta e le prime scarpe che trovo. Mia figlia più piccola mi salta in braccio e non scenderà più l’altra mi si nasconde dietro. Usciamo in strada, è tornata la luce fortunatamente. Andiamo verso la piazzetta perché ci sembra possa essere più sicuro là. Mentre cammino mi prende un senso di vomito fortissimo e mi sento le gambe mancare. Mi fermo e mi appoggio con una mano al cofano di una automobile. Mia figlia mi dice “guarda papà delle pietre”. Sul tetto dell’auto ci sono alcune pietre e dei calcinacci. Guardo in alto e benché ci sia poca luce si vede distintamente un camino crollato che viene tenuto su miracolosamente dalla grondaia. Si sente la prima sirena poi due poi tre poi tantissime. Ho preso il cellulare con me. Telefoniamo alle nostre persone più care ostentando sicurezza e nascondendo il terrore.

Quattro e venticinque al chilometro. C’è un caldo infernale. Mi sfilo la canottiera e corro a petto nudo. Non è che togliersela faccia diminuire di granché il caldo ma è più la sensazione di libertà che da sollievo. Due ore dopo rientriamo in casa. Ma dal quel momento non è più la nostra casa, è solo la nostra abitazione. Raccogliamo le cose cadute, decidiamo di guardare su internet cosa è successo per evitare che immagini troppo crude nei telegiornali possano spaventare le bambine. Mi addormento sul divano con mia figlia ancora aggrappata al collo. Il giorno dopo cerchiamo di fare finta che tutto sia passato, che ci siano solo da raccogliere i cocci della città ferita e aspettare che passi lo spavento. Perché qui noi siamo abituati così. Il terremoto passa e va. Non rimane sotto i tuoi piedi, dentro il tuo cuore. Ma ecco che nel pomeriggio una nuova scossa ci fa capire che qualcosa è cambiato. Ti insinua il dubbio, la paura. Cosa fare? Vedo il terrore negli occhi delle mie figlie e ripenso che se la scossa della notte fosse stata solo un poco più forte oppure più vicina la casa non avrebbe retto probabilmente. Ma neppure le case vicine. Ci sarebbe stato un disastro. Convoco le mie figlie e le istruisco con un discorso che mai avrei pensato di fare loro ma che adesso mi sembra sensato. Mi rivolgo alla più grande e le dico che se papà le dice di correre fuori lei deve prendere per mano sua sorella e insieme correre più in fretta possibile verso la piazzetta dove siamo stati la mattina. Senza girarsi, senza guardare. Lei mi guarda stupita e mi chiede cosa avremmo fatta io e la mamma. Le sorrido e le dico che noi poi saremmo sicuramente arrivati solo qualche secondo dopo e che ci saremmo trovati poi là. Balbetto qualcosa sul fatto che dobbiamo pure prendere la gatta ma insisto più volte sul fatto che se io dico corri loro devono fare così. Smetto di insistere solo quando lei smette di fare domande e dice che va bene, che ha capito. Alle otto di sera un’altra scossa ci toglie completamente la speranza che il peggio sia passato. Qui in questa casa, pardon, in questa abitazione sarebbe impossibile dormire. Decidiamo di andare a dormire in auto. Dormire è una parola vuota per il momento.

Tre e quarantacinque al chilometro. Faccio fatica a respirare. Ma voglio continuare a correre a questa velocità finché non ce la faccio più. Voglio fermarmi un attimo prima di stramazzare al suolo. Perché dal venti Maggio non c’è verso di dormire più di qualche mezz’ora di seguito. Ogni voce, ogni auto che passa, ogni aereo che sorvola la zona provoca un mancamento al cuore e un groppo allo stomaco e per quanto fingi con te stesso che si stia attenuando dentro basta un rombo diverso dal solito per riportarti al punto zero. Figuriamoci quello che ha fatto il terremoto di otto giorni dopo. Manca meno di un chilometro a casa. Alla mia abitazione. Cerco di tenere il ritmo massimo per morire solo di fronte al portone. Passo di fianco al palazzo Schifanoia. E’ transennato o meglio hanno infilato delle specie di picchetti di ferro nell’asfalto e hanno delimitato la zona con il nastro bianco e rosso. Mentre ci corro a fianco e allungo la mano fino a toccarlo, quasi ad accarezzare la mia città ferita. Sono ferite lievi ma profonde per fortuna ma come brutti tatuaggi indelebili che puoi nascondere ma rimangono. Raggiungo una bicicletta guidata da una mamma e dietro un bimbo girato spalle al verso di marcia. Mi guarda e mi sorride, mentre lo supero mi allunga la mano “per dargli il cinque”. Gli do il cinque e lo sorpasso. Corro gli ultimi cinquecento metri pensando che è ora di riconquistare la propria casa e mi sembra che il traguardo simbolico sia proprio il portone di casa. Così accelero quasi fosse la volta finale di una corsa alle Olimpiadi. Finisco il fuoco dentro abbondantemente prima del traguardo ma riesco a proiettarmi oltre.
Ho appena vinto casa mia.

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.